
Entropia sociale e ricombinazione
9 marzo 2009Franco Bifo Berardi - rekombinant.org
La risorgente questione degli intellettuali nasconde il problema del “che fare?” contemporaneo, il problema dell’autorganizzazione del lavoro cognitivo. Riprende spazio la questione degli intellettuali, nella discussione della sinistra italiana. Ma la questione è malposta, e la parola stessa (intellettuale) elabora malissimo la geografia socio-mentale contemporanea. Lenin collega alla figura intellettuale il problema del che fare, della direzione politica dell’azione collettiva. Gli intellettuali non sono una classe sociale, non hanno interessi sociali specifici da sostenere. Essi sono generalmente espressione della rendita parassitaria e possono compiere scelte “puramente intellettuali”, facendosi tramite della coscienza rivoluzionaria. In questo senso essi sono quanto di più simile al puro divenire dello spirito, al dispiegarsi hegeliano della autocoscienza.
D’altra parte gli operai, pur essendo portatori di un interesse sociale omogeneo, non possono passare dalla fase puramente economica (l’in sé hegeliano dell’essere sociale) alla fase politica cosciente (il per sé dell’autocoscienza), se non attraverso la forma politica del partito, che incarna e tramanda l’eredità filosofica (il proletariato come erede della filosofia classica tedesca). In Gramsci la riflessione sugli intellettuali diviene più articolata, e si avvicina a una formulazione materialistica del carattere organico del rapporto tra intellettuali e classe operaia. Il partito è comunque concepito, nella intera tradizione comunista, come l’intellettuale collettivo. L’intellettuale della tradizione moderna (quello che non è stato ancora messo al lavoro dalla rete digitale) non può avere accesso alla dimensione collettiva se non grazie al partito.
La rottura prodotta dall’operaismo italiano (che io preferisco chiamare composizionismo, per il rilievo che si dà alla questione della composizione di classe) si fonda su un abbandono della nozione leninista del partito come intellettuale collettivo, e della nozione stessa di intellettuali che viene sostituita con quella (marxiana, ma non engelsiana e non leniniana) di general intellect. Non mi pare che si sia però compiuta una riflessione esauriente sul superamento della nozione leninista di partito e della nozione gramsciana di intellettuale.
Se vogliamo oggi definire un che fare per il nostro tempo dobbiamo concentrare l’attenzione sul rapporto tra funzione cognitiva nel lavoro sociale complessivo e movimento che organizza forme di autonomia produttiva e comunicativa. Nel libro di Negri e Hardt manca (dichiaratamente) una teoria dell’azione, e questo non è un suo limite. La nozione di “moltitudine” non ha, (IMHO) una potenza attiva, organizzativa, meno che mai una funzione “soggettivante”. La nozione di moltitudine descrive la tendenza dissolutiva, l’entropia che si diffonde in ogni sistema sociale, e che rende impossibile (asintotico, infinito, intermianbile) il lavoro del potere, ma anche il lavoro dell’organizzazione politica. Noi abbiamo bisogno di individuare una funzione ricombinante, e questa la troviamo nella funzione cognitiva che attraversa l’insieme della produzione sociale.
Il lavoro intellettuale non esiste più come funzione sociale separata dal lavoro sociale complessivo, ma diviene funzione trasversale, creazione delle interfacce tecnolinguistiche a cui è affidata la fluidità del processo sociale, e quindi potenza ricombinante (dove ricombinare non vuol dire sovvertire, rovesciare, inverare o disvelare, ma significa ben più concretamente montare elementi conoscitivi secondo un disegno diverso da quello del profitto e del capitale). La risposta al che fare presente è politica in un senso molto particolare. Infatti non consiste nella creazione di un partito, di una organizzazione esterna al sociale capace di dirigerlo o di governarlo. La risposta consiste nel dare forma alla specifica pratica conoscitiva secondo modelli epistemici autonomi, secondo i modelli epistemici etici che intessono quello specifico livello di conoscenza.
Il programmatore deve fare il programmatore, il medico deve fare il medico, il bioingegnere deve fare il bioingegnere, e l’architetto deve fare l’architetto, mentre nella visione leniniana ciascuno doveva fare il rivoluzionario di professione, e questo significava portare dall’esterno la coscienza rivoluzionaria agli operai. Ma il programmatore il medico il bioingegnere e l’architetto devono in primo luogo riorientare la propria azione conoscitiva, modificare la funzione e la struttura del proprio campo conoscitivo specifico e del proprio campo specifico di azione produttiva. Mi sembra che abbiamo raccolto una grande quantità di elementi utili per l’elaborazione del “manifesto dei lavoratori della conoscenza (chenon si deve chiamare così)”, ma l’esitazione che ci attanaglia riguarda proprio il metodo.
Non vogliamo un manifesto “dichiarativo”, perché questo ci ricorda troppo il volontarismo leninista, il dire che rimanda ad un’azione esterna al dire. Vogliamo invece un manifesto che sia come un software, o come un codice genetico. Un dire che sia paradigma, che sia contagio e al tempo stesso catena enunciativa ricombinante. Abbiamo esagerato con le pretese, le attese le intenzioni? Può darsi, ma vale la pena perché le intenzioni non sono soltanto intenzioni, a loro volta, ma disposizioni ad essere.
commento di wami tow : A RACCOLTA, COMPAGNI E' TEMPO DI ORDINE NUOVO!.( ...DOPO IL DISORDINE VECCHIO!...).
9 marzo 2009Franco Bifo Berardi - rekombinant.org
La risorgente questione degli intellettuali nasconde il problema del “che fare?” contemporaneo, il problema dell’autorganizzazione del lavoro cognitivo. Riprende spazio la questione degli intellettuali, nella discussione della sinistra italiana. Ma la questione è malposta, e la parola stessa (intellettuale) elabora malissimo la geografia socio-mentale contemporanea. Lenin collega alla figura intellettuale il problema del che fare, della direzione politica dell’azione collettiva. Gli intellettuali non sono una classe sociale, non hanno interessi sociali specifici da sostenere. Essi sono generalmente espressione della rendita parassitaria e possono compiere scelte “puramente intellettuali”, facendosi tramite della coscienza rivoluzionaria. In questo senso essi sono quanto di più simile al puro divenire dello spirito, al dispiegarsi hegeliano della autocoscienza.
D’altra parte gli operai, pur essendo portatori di un interesse sociale omogeneo, non possono passare dalla fase puramente economica (l’in sé hegeliano dell’essere sociale) alla fase politica cosciente (il per sé dell’autocoscienza), se non attraverso la forma politica del partito, che incarna e tramanda l’eredità filosofica (il proletariato come erede della filosofia classica tedesca). In Gramsci la riflessione sugli intellettuali diviene più articolata, e si avvicina a una formulazione materialistica del carattere organico del rapporto tra intellettuali e classe operaia. Il partito è comunque concepito, nella intera tradizione comunista, come l’intellettuale collettivo. L’intellettuale della tradizione moderna (quello che non è stato ancora messo al lavoro dalla rete digitale) non può avere accesso alla dimensione collettiva se non grazie al partito.
La rottura prodotta dall’operaismo italiano (che io preferisco chiamare composizionismo, per il rilievo che si dà alla questione della composizione di classe) si fonda su un abbandono della nozione leninista del partito come intellettuale collettivo, e della nozione stessa di intellettuali che viene sostituita con quella (marxiana, ma non engelsiana e non leniniana) di general intellect. Non mi pare che si sia però compiuta una riflessione esauriente sul superamento della nozione leninista di partito e della nozione gramsciana di intellettuale.
Se vogliamo oggi definire un che fare per il nostro tempo dobbiamo concentrare l’attenzione sul rapporto tra funzione cognitiva nel lavoro sociale complessivo e movimento che organizza forme di autonomia produttiva e comunicativa. Nel libro di Negri e Hardt manca (dichiaratamente) una teoria dell’azione, e questo non è un suo limite. La nozione di “moltitudine” non ha, (IMHO) una potenza attiva, organizzativa, meno che mai una funzione “soggettivante”. La nozione di moltitudine descrive la tendenza dissolutiva, l’entropia che si diffonde in ogni sistema sociale, e che rende impossibile (asintotico, infinito, intermianbile) il lavoro del potere, ma anche il lavoro dell’organizzazione politica. Noi abbiamo bisogno di individuare una funzione ricombinante, e questa la troviamo nella funzione cognitiva che attraversa l’insieme della produzione sociale.
Il lavoro intellettuale non esiste più come funzione sociale separata dal lavoro sociale complessivo, ma diviene funzione trasversale, creazione delle interfacce tecnolinguistiche a cui è affidata la fluidità del processo sociale, e quindi potenza ricombinante (dove ricombinare non vuol dire sovvertire, rovesciare, inverare o disvelare, ma significa ben più concretamente montare elementi conoscitivi secondo un disegno diverso da quello del profitto e del capitale). La risposta al che fare presente è politica in un senso molto particolare. Infatti non consiste nella creazione di un partito, di una organizzazione esterna al sociale capace di dirigerlo o di governarlo. La risposta consiste nel dare forma alla specifica pratica conoscitiva secondo modelli epistemici autonomi, secondo i modelli epistemici etici che intessono quello specifico livello di conoscenza.
Il programmatore deve fare il programmatore, il medico deve fare il medico, il bioingegnere deve fare il bioingegnere, e l’architetto deve fare l’architetto, mentre nella visione leniniana ciascuno doveva fare il rivoluzionario di professione, e questo significava portare dall’esterno la coscienza rivoluzionaria agli operai. Ma il programmatore il medico il bioingegnere e l’architetto devono in primo luogo riorientare la propria azione conoscitiva, modificare la funzione e la struttura del proprio campo conoscitivo specifico e del proprio campo specifico di azione produttiva. Mi sembra che abbiamo raccolto una grande quantità di elementi utili per l’elaborazione del “manifesto dei lavoratori della conoscenza (chenon si deve chiamare così)”, ma l’esitazione che ci attanaglia riguarda proprio il metodo.
Non vogliamo un manifesto “dichiarativo”, perché questo ci ricorda troppo il volontarismo leninista, il dire che rimanda ad un’azione esterna al dire. Vogliamo invece un manifesto che sia come un software, o come un codice genetico. Un dire che sia paradigma, che sia contagio e al tempo stesso catena enunciativa ricombinante. Abbiamo esagerato con le pretese, le attese le intenzioni? Può darsi, ma vale la pena perché le intenzioni non sono soltanto intenzioni, a loro volta, ma disposizioni ad essere.
commento di wami tow : A RACCOLTA, COMPAGNI E' TEMPO DI ORDINE NUOVO!.( ...DOPO IL DISORDINE VECCHIO!...).
Ritornano le cervellotiche e intellettualoidi teorie del partito comunista applicate al sociale.(=ENTROPIA)
Gli intellettuali vogliono sempre avere la meglio sugli operai,che sono gli unici deputati a parlare di loro e non ne capiscono niente di queste teorie.
Ritorna il "complesso del duce" (=BENITO MUSSOLINI), ma chi l'ha voluto "il duce", l'ORDINE NUOVO, reclamato da Gramsci.?
Però a Gramsci "il democratico" stava bene solo un ORDINE NUOVO BOLSCEVICO, non FASCISTA.E con ciò era un "democratico? Mi pare propro di no, cari compagni.
Eppoi il DISORDINE VECCHIO, contro lo Stato costituito,anche in periodo di democrazia, chi l'ha sempre creato alfine di stabilire l'ORDINE NUOVO? Non mi sembrate molto coscienti di quel che fate. Per voi tutto va bene se l'ORDINE NUOVO e' bolscevico, senno' per lo Stato costituito devono sempre essere batoste e LOTTA CONTINUA.Ma che ci ha ricavato in trentanni di questa politica la "classe operaia"'? Nulla, se non nuove catene di montaggio meno pesanti. Ma le hanno studiate i "socialisti", Carl Marx, o degli studiosi del problema?
Gli intellettuali vogliono sempre avere la meglio sugli operai,che sono gli unici deputati a parlare di loro e non ne capiscono niente di queste teorie.
Ritorna il "complesso del duce" (=BENITO MUSSOLINI), ma chi l'ha voluto "il duce", l'ORDINE NUOVO, reclamato da Gramsci.?
Però a Gramsci "il democratico" stava bene solo un ORDINE NUOVO BOLSCEVICO, non FASCISTA.E con ciò era un "democratico? Mi pare propro di no, cari compagni.
Eppoi il DISORDINE VECCHIO, contro lo Stato costituito,anche in periodo di democrazia, chi l'ha sempre creato alfine di stabilire l'ORDINE NUOVO? Non mi sembrate molto coscienti di quel che fate. Per voi tutto va bene se l'ORDINE NUOVO e' bolscevico, senno' per lo Stato costituito devono sempre essere batoste e LOTTA CONTINUA.Ma che ci ha ricavato in trentanni di questa politica la "classe operaia"'? Nulla, se non nuove catene di montaggio meno pesanti. Ma le hanno studiate i "socialisti", Carl Marx, o degli studiosi del problema?
La classe operaia di cui continuate a parlare, non esiste più.
Siete rimasti fermi all'800. Ormai è diventata una classe"impiegatizia" di tecnici della catena,seduti a tavolino a muovere dei pulsanti al computer.
E il "proetariato giovanile" di cui continuate a parlare, qual'è?...Quello "cosiddetto dei concerti Rock !! Ma fateci il piacere,...quale proletariato...? Che sono tutti "figli di papà...!
Chi ha sempre creato il DISORDINE VECCHIO per stabilire l'ORDINE NUOVO (BOLCSEVICO) dal '68 ad oggi,se non voi?Con che risultati è inutile dire...
Chi ha sempre creato il DISORDINE VECCHIO per stabilire l'ORDINE NUOVO (BOLCSEVICO) dal '68 ad oggi,se non voi?Con che risultati è inutile dire...
Nessun commento:
Posta un commento